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Dardust: «Ho deciso di separare ed estremizzare le mie due anime». L'intervista

Il piano acustico e l'elettronica, due poli opposti dello stesso progetto: "Duality", fuori a partire da venerdì 28 ottobre. Abbiamo incontrato per voi il pioniere della musica classica alternativa

Fuori dal 28 ottobre, pubblicato sul mercato internazionale da Sony Music Masterworks e Artist First, “Duality” il nuovo progetto discografico di Dario Faini, alias Dardust, musicista e produttore che non ha bisogno certo di presentazioni. Un doppio album contenente venti tracce divise in due parti.


Mentre nei precedenti lavori l'artista ha sempre cercato di unire il minimalismo pianistico con l’elettronica, creando un crossover a cavallo tra neoclassica e pop, questa volta ha deciso di separare nettamente le sue due anime, abbandonando ogni punto d’incontro tra questi due mondi.


Ognuno dei due lati del disco rappresenta un emisfero diverso della mente. Il lato A, elettronico, simboleggia la parte sinistra del nostro cervello: la razionalità, “l’ingegnere” che vive all’interno dell’artista. Il lato B, in piano solo, esprime l’emisfero destro della mente: le emozioni, la creatività e l’irrazionalità degli esseri umani.


Intervista a Dardust


Più volte hai confessato che la musica non ti stanca mai e che ogni volta per te è un po' come ripartire da zero. Come hai scelto l'itinerario di questo nuovo viaggio?


«Ho scelto le tappe dell'itinerario ponendomi dei limiti in partenza, parlando con Taketo Gohara che è stato un po' un angelo custode di questo viaggio. Lui mi ha consigliato di separare le cose fino ad arrivare ad estremizzare, invece che mischiare il piano e l'elettronica, come ho sempre fatto, ho cercato di partire da rispettivi punti opposti. Il risultato mostra due anime differenti, come se si trattasse di due artisti diversi in uno. Il tracciato è stato questo: separare sin dal principio l'architettura di questi due emisferi».


Visto che si parla di dualità, che significato assume nel tuo vocabolario la parola “contrasto”?


«Il contrasto è qualcosa che ho sempre cercato nelle produzioni, perché ha a che fare con quell'elemento che non ti aspetti e che non asseconda nessuno. Penso sia necessario per creare una rottura, si tratta del tradimento di un'aspettativa che ti porta in un nuovo mondo e credo sia il motore necessario per innovare. Se non ci fosse il contrasto sarebbe tutto molto conservativo, perlomeno nella mia testa. Mi piace questo approccio, per questo motivo tendo a seguire dei lavori più fuori dalle righe, perché mi tengono in vita».



Poi il viaggio prosegue in Giappone, c’è tanto Sol Levante in questo progetto. Interessante il concetto che si lega all’arte del Kintsugi, una vera e propria metafora di vita che può rappresentare anche il tuo modo di fare musica? Mi riferisco a questo tuo cercare di attingere dall’identità di una cultura musicale per restituirle una veste completamente nuova...


«È metafora bellissima quella del Kintsugi, perché il fatto che un oggetto possa essere conservato, riparato e non buttato via perché rotto, mi affascina. Si tratta di restituire valore a quelle crepe, di riempirle con l'oro, equivale a creare una nuova estetica sul dolore e la sofferenza delle nostre ferite. Credo sia un messaggio bellissimo ed è quello che cerco di fare sempre, risollevarsi e andare avanti per creare nuove soluzioni. A livello culturale, ci sono tanti riferimenti musicali che sono miscelati, sia nella parte pianistica che in quella elettronica. Ci sono tanti spunti in questo lavoro, ma spero che alla fine il collante sia la mia scrittura melodica».


Sei reduce dall'esperienza di direttore artistico della Notte della Taranta, un’esperienza che immagino ti abbia portato via un sacco di tempo, ma restituito in cambio un sacco di soddisfazioni, no?


«L'esperienza è stata totalizzante, perché se accetto un determinato impegno lo faccio per fare la differenza. Mi sono avvicinato con tanto timore, perché avevo molto rispetto di quel mondo. L'intenzione, quindi, è stata quella di dare valore a ogni singolo passaggio, dalla scelta di brani agli arrangiamenti, passando per i cambiamenti di accordi, al lavorizzare gli orchestrali e fare in modo che fosse un viaggio comune».


In conclusione, visto che fai riferimento al cervello con i due dischi che simboleggiano i nostri due emisferi, mi incuriosisce sapere se ti sei mai avvicinato al discorso della musicoterapia. Hai mai approfondito l'argomento? Si tratta di uno strumento che in molti considerano educativo, riabilitativo e terapeutico…


«Guarda, devo essere onesto, è una cosa che nel senso stretto psicologico non mi è mai capitato di approfondire. La mia laurea in psicologia è più collegata alle dinamiche dell'ascolto, meno sull'aspetto curativo. Quello che mi sento di dire è che in musica il valore terapeutico è fondamentale, soprattutto la musica strumentale che non possiede alcuna sceneggiatura può permettere di proiettare qualsiasi cosa e creare delle catarsi, oltre che un sistema di transfer come quando sei in analisi. Tra il compositore e il fruitore si crea una collusione di immaginario comune che può creare dei cambiamenti. Tutto questo si riflette in maniera interessante proprio sul lato terapeutico».



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