Ubaldo Pantani: «Il tragicomico è un punto di vista prezioso». L'INTERVISTA
Attore, comico e imitatore, questo e molto altro ancora è Ubaldo Pantani, artista a tutto tondo, nato in teatro e prestato al piccolo schermo. Da "Mai dire..." a "Quelli che il calcio", la parabola di un successo costruito e meritato

Attore, allievo di Giorgio Albertazzi, diretto al cinema da Giovanni Veronesi e Fausto Brizzi, comico, imitatore e chi più ne ha più ne metta. Lui è Ubaldo Pantani, mattatore della risata. In tv ha parodiato: politici, conduttori, giornalisti, allenatori di calcio e un sacco di altri personaggi che non sono sfuggiti al suo attento sguardo. "Fare il comico, seriamente" non è soltanto il suo motto, ma anche il claim della Scuola di Teatro di cui è direttore artistico. In attesa dell'Open Day in programma sabato 12 novembre al Cineclub Arsenale di Pisa, l'artista ci racconta di questo nuovo progetto, ripercorrendo insieme alcune delle tappe più importanti della sua "tragicomica" carriera.
Intervista a Ubaldo Pantani
Partiamo dall'avventura da direttore artistico della Scuola di Teatro, cosa ti aspetti da questo nuovo impegno?
«Questo è un progetto nato tre anni fa con L'Arsenale, un cineclub di Pisa, la mia città. Una realtà molto radicata, attiva da quarant'anni, il posto ideale dove realizzare questo laboratorio. Non è una vera e propria scuola, l'impostazione è tecnico-pratica e non teorica, finalizzata alla messa in scena dei lavori realizzati dai partecipanti. Alla fine del semestre, produrremo degli spettacoli che verranno presentati in una sorta di rassegna poco prima o durante l'estate. Si tratta di un banco di prova anche per noi, per capire la risposta del pubblico, se siamo stati bravi ad esempio nello scegliere per la campagna il claim "Fare il Comico, seriamente". Non ci aspettiamo comunque tantissime persone, perché un lavoro del genere si può fare con un numero ristretto di partecipanti. Sono molto curioso e non vedo l'ora di iniziare. Sarà un lavoro identitario, volto a scoprire la vera anima dell'attore».

Hai scelto di intitolare questa scuola-laboratorio "La tragicomica", perché?
«Perchè il linguaggio è quello e perché ogni commedia parte sempre dalla tragedia, una narrativa in cui tutti noi ci ritroviamo. La comicità può essere intesa come una chiave di lettura, ma anche come un modo per superare, metabolizzare e vivere un dramma. Pensiamo al concetto di autoironia, un salvagente prezioso quando ci succede qualcosa o quando ci ritroviamo nella condizione di attutire gli effetti di qualcosa di negativo che mina il nostro stato d'animo. Il tragicomico è un punto di vista prezioso, da mantenere sempre, nella vita così come nel nostro lavoro».
Sui social hai scritto “L’onore e il piacere di essere stato suo allievo”, quali insegnamenti ti ha lasciato Giorgio Albertazzi?
«La crudezza di questo lavoro, prima ancora di parlare di tecnica. Partiamo dal presupposto che quello dell'attore è un mestiere che non si insegna, figuriamoci quello del comico. La teoria e il suo punto di vista delle cose sgorgava dal lavoro, con lui ho avuto una formazione teatrale classica, andando subito in scena e mettendosi alla prova con esercizi. Albertazzi faceva parte di una tradizione che andava in questa direzione e mi ha insegnato proprio questo, che si tratta di un mestiere che si trasmette con l'esperienza e l'impegno. Mi è servito molto, moltissimo».
Sei laureato in scienze politiche all’Università di Pisa, con una tesi in Metodologie e Tecniche della Ricerca Sociale sulle applicazioni del linguaggio comico nell’apprendimento. In altre parole?
«Mentre frequentavo l'indirizzo sociologico, mi è capitato di lavorare per circa un anno come attore in un progetto di edutainment per un'azienda di telecomunicazioni, testando quanto funzioni il linguaggio comico in termini di apprendimento. Questa esperienza me la sono portata dietro, l'ho affinata e sono quasi vent'anni che opero in questo ambito con dei brefing nella sessione formativa per varie aziende. Ho scoperto questa attitudine ai claim, sviluppando questa capacità di sentisi e devo dire che ha funzionato. Ho da sempre una grande passione per gli slogan e posso ritenermi un discreto titolista».

Hai cominciato con i ruoli drammatici per poi concentrarti su altro e passare in qualche modo dall’altra parte della barricata. Gigi Proietti, che ha avuto un percorso analogo al tuo, diceva spesso che era stato il suono della risata a redimerlo, nel tuo caso cosa è scattato esattamente?
«Il fatto che la comicità funzioni subito, a volte anche con il minimo sforzo, per quanto se avessi voluto avrei potuto continuare col registro drammatico. Evidentemente, il linguaggio comico mi era molto più congeniale, in questo caso la pigrizia creativa mi ha aiutato a scegliere la via più corta per ottenere qualcosa. Ad un certo punto ho capito che avrei fatto molta meno fatica. Sulla risata sono perfettamente d'accordo, perchè si tratta della forma più mefistofelica che ci sia. Una volta assaggiato il linguaggio comico è difficile tornare indietro, in fondo tutti vogliamo essere empatici e strappare agli altri qualche sorriso».
Qual è il Pantani-pensiero a proposito del "politicamente corretto"?
«Il politically correct vive la trasformazione del mondo occidentale, i suoi effetti li viviamo nel quotidiano. Un effetto unito al rating dei social network, che crea ancora più vincoli non tanto quando vai in scena, ma soprattutto nel post, nel commento. La vera inibizione è questa, perché è difficile che qualcuno ti dica non dire questo o non dire quest'altro, ma è la paura di un fenomeno come lo shitstorm diventato di uso comune, perchè tutti hanno la possibilità di rivendicare un proprio pensiero. È questo il vero problema, non è tanto un ente o un'emittente che può esercitare una qualche forma di censura, ma la paura di ciò che può venirti addosso dopo aver detto o fatto qualcosa. Tutti sono diventati editori e ti mettono alla berlina in maniera spesso scriteriata, annullando il confine tra appartenenza minoritaria e maggioritaria. Qualsiasi cosa tu dica c'è una parte di persone che non viene rappresentata e che rivendica il diritto di esserlo, questo è il vero casino, di conseguenza diventa difficile fare una battuta liberamente».
Per tutta questa serie di ragioni, trovo davvero che tu abbia una marcia in più nelle imitazioni, sia per la tua formazione che per la tua sensibilità. Questo lo ha riscontrato anche Giovanni Allevi, come ha dichiarato a Repubblica lo scorso gennaio (qui l'intervista). In pratica dice che la tua parodia è la più rispettosa, avvolta da una sua particolare poesia. Qual è il tuo approccio alle imitazioni?
«Intanto ringrazio Allevi, mi fa molto piacere. Su questo io sono molto preciso, mi sono imposto una regola: non usare mai la maschera come un'arma, ma cercare di far dire a quei personaggi ciò che vorrei sentire da loro se me li ritrovassi di fronte. Voglio poterle vedere in faccia le persone, non voglio trovarmi nella condizione di abbassare lo sguardo o cambiare strada perché mi vergogno di quello che ho fatto con una maschera addosso. Questo riguarda anche la satira, non solo le imitrazioni. L'unica soluzione sarebbe quella di non frequentare e arrivare a non conoscere nessuno, ma dal momento che questo è molto difficile, se non impossibile, devi accettare la condizione di trovarti a contatto col mondo».

Al di là delle imitazioni, quali sono gli aspetti e le caratteristiche di Ubaldo Pantani che il pubblico non conosce e che ti piacerebbe venissero fuori?
«C'è sempre una ragione, se il pubblico non ha visto è perché mi sono fatto vedere relativamente poco, ho fatto delle scelte precise. Non ho l'ansia di far conoscere un qualche mio aspetto inedito, credo che le cose più importanti siano venute fuori già attraverso ciò che faccio. Va bene così, altrimenti questo mi costringerebbe a descrivere una presunta virtù che potrei avere, quindi... no, non me la sento (sorride, ndr), facciamo che siano gli altri eventualmente a scoprirlo. Facciamo così».
Per concludere, visto che sei un titolista, come ti piacerebbe si intitolasse questa nostra intervista?
«"Ubaldo Pantani: dal teatro alla tv, seriamente", oppure "Il primo tragicomico Pantani", per citare Paolo Villaggio, un altro grande maestro. Da Albertazzi a Fantozzi. Insomma... vedi tu».